Recensione NO SPOILER del nuovo film di Danny Boyle
La storia fila dall’inizio alla fine: una prima parte serrata, dinamica, quasi action e una seconda decisamente più intima, più riflessiva. Il suo stile, quello che i critici bravi chiamano ipercinetico, è ben presente: Boyle torna a usare body cam, soggettive, riprese instabili, sequenze oniriche e disturbanti, per restituirci tutta l’ansia e il caos naturale di questa Gran Bretagna post-infezione. E tutto ciò si alterna perfettamente a inquadrature più costruite, quasi pittoriche, che recupera da 28 Giorni Dopo.
La fotografia è splendida e, anche se il cast - a mio personalissimo parere - non eccelle in talento recitativo (tutti tranne quella vecchia volpe di Ralph Fiennes), Boyle li dirige con mano sicura.
Insomma, tutto molto bello, tutto molto ben fatto. E qui potrei anche fermarmi, consigliarvi di andarlo a vedere e rimandarvi a recensioni più professionali della mia. Sì, se non fosse che il titolo è 28 Anni Dopo.
Si fosse chiamato L’Apocalisse Dopo L’Infezione o Morte in UK o che so io (dovrei fare il titolista, lo so) andrebbe tutto bene. Ma il fottuto titolo è 28-Anni-Dopo. Il che fa presumere che si tratti di un film che, in un qualche cacchio di modo, sia collegato al franchise inaugurato (aggiungerei inconsapevolmente) dallo stesso Boyle nel 2002 e continuato da Juan Carlos Fresnadillo con 28 Settimane Dopo nel 2007.
Ora, che Boyle volesse prendere le distanze dal secondo film, rendendolo non canonico, ci sta. Non l’ha diretto, finisce in un modo che a lui non piace e che non gli avrebbe permesso di fare il (anzi i) film che aveva in testa, eccetera. Sacrosanto. Mi va anche bene che 28 Anni Dopo e 28 Giorni Dopo non si disturbino a vicenda. Ognuno vive nel suo angolino di Inghilterra, separati da, appunto, 28 anni e pace.
Insomma, che il film con il quasi esordiente Cillian Murphy sia canonico oppure no, non importa e, alla fine, chi se ne frega?
Ma allora - domanda retorica - perché Boyle ha usato quel titolo? Ovviamente il regista di Manchester ha voluto utilizzare il brand 28…Dopo perché sapeva che gli avrebbe portato pubblico e, alla fin della fiera, incassi. E, se vogliamo proprio spaccare il capello e farne una questione di principio, apparentemente si potrebbe rilevare un problema di onestà intellettuale, nello sfruttare un brand per poi proporre al pubblico qualcos’altro (capolavoro o meno che possa essere), che del presunto prequel recupera solo l’estetica e poco altro.
Fatto sta che 28 Anni Dopo non è un sequel. Forse, neanche uno spin-off. Anzi, non fa neanche parte di un franchise che, nei fatti, non è mai esistito. 28 Anni Dopo non è un film di zombie (vaganti, infetti, non importa, avete capito cosa intendo). Non è un film action nel senso classico. Non è un film horror (anche se alcune scene body horror sono realizzate meravigliosamente bene e inserite con maestria nello svolgersi degli eventi).
È più un viaggio dell’anima. Una riflessione sul senso della vita e sulla morte. Sui traumi dei sopravvissuti trasmessi di generazione in generazione e di come la loro anima si sia adattata al contesto in cui sono stati costretti a sopravvivere.
E, anche, di come gli stessi infetti si siano adattati a vivere nello stesso contesto, negli stessi luoghi condivisi con i sopravvissuti.
Dunque, Boyle non cerca quello che, forse, chi va al cinema a vedere il film chiederebbe di primo acchito. Invece, interroga lo spettatore - spiazzandolo - su vita e morte e, tra vita e morte, sulla necessità di adattarsi, per la sopravvivenza del corpo e dell’anima.
Con, in controluce, una critica sociale sprezzante ma ben nascosta, come un easter egg emotivo.
Insomma, in 28 Anni Dopo c’è un pizzico di The Walking Dead (più il fumetto che la serie TV), un pizzico di Io sono Leggenda (più il romanzo che il film) e perfino qualche suggestione all’Arancia Meccanica, che immagino sarà espansa nei sequel annunciati.
Ma non c’è tanto di 28 Giorni Dopo, a cui ruba il titolo altisonante ed evocativo, per attirare a sé lo spettatore ormai addomesticato alle logiche dei franchise.
Ma non c’è tanto di 28 Giorni Dopo, a cui ruba il titolo altisonante ed evocativo, per attirare a sé lo spettatore ormai addomesticato alle logiche dei franchise.
Ma, detto questo, è indubbiamente un bel film. E sono molto curioso di vedere se, nei prossimi due capitoli, Boyle vorrà usare i meccanismi che una narrazione che fa parte di un universo condiviso richiede…oppure se continuerà a sovvertirli e reinventarli a modo suo, come ha già dimostrato di saper fare. Senza timore e senza alcuna ossessiva riverenza.
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