Oggi? Oggi se le chiamano ancora Fiere del fumetto è per nostalgia, se in buona fede. Per accalappiare qualche illuso come me, se in mala fede.
Sì, perché oggi ci si va per farsi un selfie con l’influencer del momento, comprare il merchandise di qualche franchise di grido e forse, se resta un po’ di tempo, passare davanti ad uno stand di fumetti. Se lo si trova.
Certo, gli autori popolari (soprattutto mangaka) attirano ancora tantissimi fan di tutte le età, ma quello che una volta era il…cuore pulsante della cultura nerd sta diventando una vetrina di consumo generalista, dove il fumetto è sempre più un pretesto, fa da tappezzeria. Ma di quella vecchia, un po’ demodé. Come la piantina finta nell’angolo dell’ufficio: arreda, ma è anche un po’ triste.
Eventi come quelli di Lucca, di Napoli, di Roma, di Milano, di Catania attirano centinaia di migliaia di visitatori. Ma quanti di questi vanno davvero per i fumetti? Non tutte le manifestazioni sono uguali, per carità. Ci sono eventi che resistono, dove il fumetto è ancora il protagonista (ARF, ANAFI, Lucca Collezionando). Poi c’è il variegatissimo panorama delle piccole manifestazioni. Molte improvvisate che comic ce l’hanno solo nel nome, ma sembrano più delle sagre di Paese, dove spiccano personaggi alla Wanna Marchi o alla Rocco Siffredi. Altre che ci provano a mantenere carta e inchiostro al primo posto. Ma la tendenza è innegabilmente quella di padiglioni dominati da stand di videogiochi, colossi dell’e-commerce, pop star del Web e file chilometriche per gadget esclusivi o presunti tali. Con il fumetto sempre più relegato ai margini. I grandi editori resistono e portano grandi numeri, intossicando i bulimici collezionisti di variant e limited edition, ma il rumore del circo mediatico è predominante e divora i più deboli.
I costi per uno stand sono alle stelle e per i piccoli editori, per gli autori autoprodotti, diventa sempre più difficile partecipare. Mentre i riflettori sono puntati altrove, chi davvero vive di fumetto viene lasciato in ombra. La fiera, da vetrina culturale, si è trasformata in un'esposizione campionaria dell’intrattenimento usa e getta.
Capiamoci: organizzare una fiera è caro. I costi sono elevati e il pubblico generalista è meno esigente: basta che gli dai la star del momento e si accontenta. E spende. Quindi è ovvio che servano nomi che attraggono: l’influencer da milioni di follower, che parla di fumetti leggendo i comunicati stampa degli editori e flexa la sua infinita collezione di volumi mai aperti; la star virale del doppiaggio; il gamer invincibile. Ma se per portare queste attrazioni si devono sacrificare gli spazi (fisici e mediatici) per autori meno noti ed editori che non siano multinazionali o quasi, allora che senso ha parlare di fiere del fumetto?
Facciamo un gioco: la prossima volta provate a trovare l’Artist Alley in una grande fiera: auguri. Gli autori indipendenti si ritrovano relegati in zone periferiche, vicino ai cessi o ai carrozzoni del cibo.
Sia chiaro: non ho nulla contro cosplay, gaming, blockbuster o serie TV, ci mancherebbe altro. Anzi, ben vengano! sono parte del mondo nerd, attraggono pubblico, rendono sostenibili gli eventi.
Ma quando tutto ruota SOLO intorno a questi mondi, è lecito chiedersi: ma chi li organizza, questi eventi, al fumetto ci pensa? O guarda solo ed esclusivamente al fatturato?
Le fiere del fumetto dovrebbero essere non dico prima di tutto ma almeno anche un’occasione per celebrare il fumetto. Diciamo un coprotagonista, ecco. Oggi, invece, sembrano solo piccoli o grandi centri commerciali nerd.
Io credo che serva un pochino di equilibrio: benvenuti gli ospiti che fanno numeri, ma diamo un minimo di visibilità vera ai fumetti, a chi li fa e a chi li produce. Altrimenti siate onesti e cambiateci il nome: chiamatele PopFest, NerdExpo.
Perché se comic diventa solo una parte del nome di un luna park pop, allora forse è meglio che me ne sto a casa con un bel fumetto tra le mani. E senza fila al bagno.
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